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La Bocca della Verità

Insieme al Colosseo, alla Fontana di Trevi e a Piazza Navona, Roma è conosciuta per il tombino più bello che si sia mai visto: la cosiddetta Bocca della Verità. Si tratta di un antico mascherone in marmo pavonazzetto che aveva la funzione di raccogliere le acque piovane che scorrevano lungo le strade e convogliarle, risucchiandole dai fori che ne compongono il viso, nella cloaca massima, la grande collettrice di acque che era sotto la città di Roma antica. Il meraviglioso tombino fu murato nella parete del pronao della chiesa di Santa Maria in Cosmedin nel 1632 e da allora è lì, posto in verticale a guardare tutti i visitatori che in file lunghissime aspettano il loro turno per fotografarsi con lui e immortalarlo ancora e ancora nella sua maestosità. Il tombino ha la forma di un mascherone: rappresenta un volto maschile barbuto; occhi, naso e bocca sono forati e cavi. Ha avuto tantissime interpretazioni: Giove Ammone, ossia Giove che fondeva nella sua figura anche quella del dio egizio Amon, e poi è stato associato al dio Oceano, ma anche ad un oracolo e a un fauno. Nel periodo della Roma Antica, la Bocca della Verità è nata come un tombino. I tombini, infatti, riportavano spesso le effigi di una divinità fluviale che “inghiotte” l’acqua piovana. E possiamo tranquillamente affermare che il nostro tombino in questione è sicuramente il più noto in assoluto al mondo sia per la sua indiscutibile bellezza, sia per la leggenda che lo accompagna almeno da una decina di secoli. Intorno all’anno Mille viene menzionato nei primi Mirabilia Urbis Romae, delle guide medievali per i pellegrini, in cui alla Bocca viene conferito il potere di pronunciare oracoli. In essa si legge: “Ad sanctam Mariam in Fontana, templum Fauni; quod simulacrum locutum est Iuliano et decepit eum”,”Presso la chiesa di santa Maria in Fontana si trova il tempio di Fauno; tale simulacro parlò a Giuliano e lo ingannò”. Un testo tedesco del XII secolo racconta che da dietro la bocca del nostro tombino il diavolo, presentatosi come Mercurio, avesse trattenuto a lungo la mano di Giuliano, ossia un tale che aveva truffato una donna e su quell’idolo avrebbe dovuto giurare la propria buona fede. E sempre attraverso il nostro tombino il diavolo gli avrebbe promesso riscatto dall’umiliazione e grandi fortune se egli avesse rimesso in auge le divinità pagane. Al medioevo risale la leggenda che sarebbe stato Virgilio Grammatico, un erudito e mago del VI secolo a costruire la Bocca della Verità ad uso di quei mariti e di quelle mogli che avessero nutrito dei dubbi sulla fedeltà del proprio coniuge. Il nome “Bocca della Verità” sarebbe apparso nel 1485 e l’opera rimase sempre menzionata tra le curiosità romane, venendo frequentemente rappresentata in disegni e stampe, fino alle meravigliose scene del film Vacanze Romane del 1953 con i meravigliosi Gregory Peck e Audrey Hepburn. Allora non ci resta che far visita al mitico tombino romano e appoggiare coraggiosamente la mano sinistra sulla sua bocca per avere conferma della sincerità delle nostre parole e azioni!

Affrontare la calura estiva ai tempi dell’Antica Roma

Caro Amico, cara Amica, che mi segui e che partecipi alle mie visite guidate andiamo a scoprire alcuni dettagli legati alla vita quotidiana dei nostri avi, gli antichi romani e in particolare conosceremo alcuni modi con cui erano soliti difendersi dal caldo estivo. Da tutta una serie di studi sappiamo che le estati dell’antica Roma erano molto calde, anche più calde di quelle della Roma di oggi e quindi quali soluzioni pratiche applicavano gli uomini e le donne di quei tempi? Innanzitutto si modificava il vestiario e la toga veniva sostituita con la tunica più leggera, inoltre ci si attivava e si lavorava in alcune ore specifiche della giornata e cioè dalle prime ore del mattino fino a mezzogiorno per poi poter riposare, magari restando a casa, nelle ore più calde. Un terzo metodo per contrastare il caldo era quello di recarsi alle terme che erano aperte a tutti i cittadini e in cui c’era un locale con le piscine fredde o appena appena tiepide, il frigidarium. Questo ambiente era fornito di qualche apertura per far entrare un pochino di luce solare, ma era molto ben schermato dai raggi solari così da poter mantenere il clima freddo e la temperatura dell’acqua molto fresca. Altro metodo per contrastare il caldo era mangiare un gelato. Sì, hai capito bene: gli antichi romani mangiavano i gelati e questo era possibile perché alcuni schiavi venivano fatti recare sulle cime montane dove erano presenti nevi e ghiacci perenni che venivano posti in appositi contenitori e trasportati in città. Per evitare che qui si sciogliessero venivano sistemati sottoterra o in seminterrati dove era più facile mantenerne la temperatura. All’occorrenza i “bar” dell’epoca si procuravano questi ghiacci e queste nevi e li servivano ai loro clienti insaporiti con della frutta fresca spremuta o con del miele. Il bar degli antichi romani era chiamato comunemente la popina, ma il nome ufficiale era termopolium che deriva da due sostantivi greci, thermós, “caldo” e poléo, “vendere”, quindi “luogo in cui si vende qualcosa di caldo” (o qualcosa di freddo nel caso dei gelati).

Altri modi per sfuggire al caldo torrido delle estati romane era, ovviamente, lasciare Roma per posti più freschi, in genere si facevano le classiche gite fuori porta in qualche zona vicina più ventilata e rinfrescante, ma i più ricchi erano soliti trasferirsi nella loro casa delle vacanze e le mete particolarmente preferite erano la Liguria, la Campania, con Capri in particolare, l’Abruzzo e comunque zone più fresche montane o balneari.

Acqua alle funi!

Cari Amico, cara Amica, che mi segui e che partecipi alle mie visite guidate, hai mai sentito il detto “acqua alle funi” o “acqua alle corde” usato per incitare qualcuno per esaltare il coraggio o la risolutezza mostrata di fronte a una difficoltà, anche se ciò potrebbe comportare pesanti conseguenze personali? Forse no, perché oramai è in disuso, ma si tratta di un modo di dire che trae le sue origini nella Roma del tardo Cinquecento quando era papa Sisto V, Felice Peretti, che tra i suoi molti progetti nella città eterna volle anche che venisse spostato l’obelisco che oggi è a Piazza San Pietro. Questo colosso era stato portato a Roma per volere di Caligola da Eliopoli, in Egitto, dove si trovava nel Forum Iulii e Nerone lo aveva era fatto sistemare ad un’estremità del suo Circo. Quindi ai tempi di Sisto V l’obelisco si trovava dietro alla basilica vaticana e nel 1586 il papa ordinò che fosse spostato da quel luogo al centro di piazza San Pietro. Quest’impresa così ardua, affidata all’architetto Domenico Fontana, presentava gravi difficoltà. L’obelisco infatti pesa 350 tonnellate ed era alto 25 metri, perciò il Fontana dovette far calcoli su calcoli e impegnare impalcature, argani e carrucole. Per azionare il tutto furono ingaggiati 800 uomini e 140 cavalli. Il 10 settembre 1586 l’obelisco doveva essere innalzato e, visti i pericoli inerenti al lavoro, il papa emanò l’ordine agli operai e alla folla di non fiatare. Per chi avesse lanciato il minimo grido o pronunciato una qualsiasi parola ci sarebbe stata la pena di morte e per questo furono sistemati sul luogo la forca ed il boia pronti a punire il malcapitato favellatore.

I lavori andarono avanti e l’obelisco era quasi a montato quando si videro le funi cedere e allungarsi pericolosamente. Il colosso stava per cadere a terra quando in quell’assordante silenzio si levò una voce che gridò in dialetto ligure: “Daghe l’aiga ae corde!” Cioè date acqua alle funi. Il consiglio fu fatto eseguire subito dagli architetti e le corde non si ruppero. A gridare era stato il capitano Benedetto Bresca, marinaio ligure, che sapeva bene che le corde di canapa si accorciano quando vengono bagnate. Dato l’editto papale, Bresca fu subito arrestato, ma Sisto V invece della punizione gli riconobbe larghi privilegi: una lauta pensione e il diritto di issare la bandiera pontificia sul suo bastimento. Inoltre Bresca avrebbe chiesto ed ottenuto il privilegio, per sé e per i suoi discendenti, di fornire alla Chiesa di San Pietro degli ulivi per la Settimana Santa. Ancora oggi Benedetto Bresca viene ricordato nella sua città natale, infatti una piazza nel centro cittadino di Sanremo è intitolata a lui, a quel capitano coraggioso che salvò un’impresa titanica rischiando addirittura la vita per aver osato proferir parola.

Via dei Cessati Spiriti

Caro Amico, cara Amica, che mi segui e che partecipi alle mie visite guidate andiamo a scoprire la storia di una strada di Roma dal nome molto particolare: si chiama Via dei Cessati Spiriti.

Via dei Cessati Spiriti è una strada che, percorrendo l’Appia verso sud, si trova oltre la zona Colli Albani e un po’ prima di Arco di Travertino. Il suo nome venne confermato quando nel 1945 fu rettificato il percorso di via Appia Nuova. La delibera municipale n. 14 del 2 febbraio 1945 nominò “Via dei Cessati Spiriti”: «Il tratto di Via Appia Nuova che, in seguito alla rettifica del percorso di detta strada, è venuto a formare una strada a sé stante che, dipartendosi da Via Appia Nuova, quasi di fronte al Motovelodromo, e precisamente al numero civico 618, va a raggiungere nuovamente la stessa Via Appia Nuova alla località Arco di Travertino.» Si giustifica il nome: “Dai malandrini e persone di malaffare che infestavano la zona”.

In realtà quella zona a ridosso della valle della Caffarella, vicina a via Latina, era chiamata “delli spiriti” già dal 1500 a causa incontri notturni poco graditi. Tutta quell’area era aperta campagna e si racconta che molti viandanti si fermavano con il loro carro e con il cavallo per mangiare e riposare in una vecchia osteria lì presente. A volte però, una volta usciti dall’osteria, non trovavano più né il loro carro né i loro cavalli. Oltre ai frequenti furti, di notte in quella zona si sentivano rumori inquietanti e inspiegabili. Dato che non si scoprì mai chi compisse i furti né che origine avessero quei rumori se ne attribuì la responsabilità agli spiriti che infestavano la valle.

La leggenda sopravvisse fino al 1800 quando, per cacciare via tali ‘spiriti’, fu sistemata una statuetta della Madonna sulla facciata di una palazzina. Dalla sistemazione della statua i furti di carri e dei cavalli cessarono e questo fece dire che erano cessati anche gli spiriti, tanto che un’osteria del luogo prese il nome di “Osteria dei Cessati Spiriti”. Oggi sono ancora visibili i ruderi di questa osteria con il fienile e l’abbeveratoio per gli animali su un lato del locale dove gli avventori potevano far rinfrescare e dissetare i loro cavalli mentre loro si ristoravano con un buon pasto in un luogo ormai sicuro e libero dai furti, dai rumori e dagli spiriti!